Può
essere difficile per il paziente riconoscere un sanguinamento normale da uno
patologico. È il medico pertanto che deve giudicare se il paziente ha problemi
emorragici.
Particolare
attenzione va prestata alla distribuzione ed estensione delle manifestazioni
emorragiche, poiché è improbabile che, in presenza di un’alterazione
dell’emostasi, la sede dell’emorragia sia unica.
Gli
interventi di chirurgia maggiore sono da considerarsi il miglior test per
valutare la normalità del sistema emostatico del paziente. In caso di anamnesi
negativa, buone informazioni possono essere ottenute anche dall’esito di
interventi di chirurgia minore (ad esempio un’estrazione dentaria o una tonsillectomia).
È
importante conoscere i dettagli di eventuali complicanze emorragiche: tempo di
insorgenza rispetto all’intervento, durata del sanguinamento, necessità di
trasfusioni.
Per
quanto riguarda il tempo di insorgenza, le emorragie causate da difetti della
fase piastrinica insorgono precocemente, mentre quelle causate da difetti della
coagulazione o della fibrinolisi insorgono tardivamente, anche a parecchie ore
di distanza dall’intervento.
Anche
il tipo di sanguinamento può permettere di orientare la diagnosi. Le emorragie
nelle sedi mucose (porpora, petecchie) sono prevalentemente dovute a difetti
della fase piastrinica; quelle nelle sedi muscolari (ematomi) e articolari
(emartri) sono dovute a difetti della coagulazione e/o della fibrinolisi.
Di
fondamentale importanza per l’identificazione della causa della sindrome
emorragica sono anche l’anamnesi farmacologica e quella familiare.
Nel
caso di manifestazioni emorragiche successive a difetti complessi, un accurato
esame obiettivo dell’addome (epatosplenomegalia, dolorabilità in loggia renale)
permette di associare gli eventi emorragici a malattie sistemiche quali
l’epatopatia cronica, l’insufficienza renale cronica, le leucemie e le sindromi
mieloproliferative.
Esistono
poi test di screening per indagare la fase della coagulazione; si tratta di
esami semplici da eseguire su plasma citrato: il tempo di protrombina (PT)
indaga la via estrinseca, il tempo di tromboplastina parziale attivato (aPTT)
la via intrinseca. Un prolungamento isolato del PT è indice di carenza del
fattore VII; un prolungamento isolato dell’aPTT è invece indicativo di carenza
di uno o più tra i fattori VIII, IX, XI e XII. Il prolungamento del tempo di
entrambi i test indica la carenza di uno dei fattori della via comune (II, V, X
e fibrinogeno) o, più comunemente, una carenza multifattoriale (ad esempio per
grave epatopatia, deficit di vitamina K ecc).
Oltre
al PT e aPTT, alcuni altri esami di rapida esecuzione sono importanti nella
diagnosi delle coagulopatie acquisite come la CID; tra questi ricordiamo il
dosaggio del fibrinogeno, la conta piastrinica, il tempo di trombina (il tempo
di trombina è allungato in presenza di eparina, di prodotti di degradazione del
fibrinogeno/fibrina che interferiscono con la polimerizzazione della fibrina, e
anche in alcuni casi di ipofibrinogenemia), il tempo di reptilasi (anche questo
test è sensibile alla presenza di prodotti di degradazione di
fibrinogeno/fibrina; essi non sono tuttavia sensibili all’eparina, quindi
risultano utilissimi in quei casi in cui il paziente sia stato sottoposto a
terapia eparinica) e il dosaggio del D-dimero, derivato dalla digestione della
fibrina (si può eseguire sia su plasma che su siero).
Sindromi emofiliche
Si
definiscono sindromi emofiliche le malattie emorragiche ereditarie dovute alla
carenza totale o parziale oppure al difetto funzionale dei fattori della
coagulazione. La gravità della patologia dipende dal ruolo che il fattore
riveste nella cascata coagulativa, dall’entità della mancanza del fattore e dalla
sua funzionalità. Nei paesi occidentali le coagulopatie congenite più frequenti
sono la malattia di von Willebrand (VWD) e l’emofilia A e B, con una frequenza
di 1:10000 d 1:60000 rispettivamente. Meno approfondita è la conoscenza degli
altri disordini della coagulazione, ereditati in modo autosomico recessivo
(carenza di fibrinogeno, carenza di protrombina, carenza di fattore V ecc),
anche per la minore frequenza con cui queste patologie si manifestano. Queste
patologie non sono per altro meno gravi dell’emofilia A e B. Inoltre, poiché in
paesi come quelli di religione musulmana, dove è praticato il matrimonio tra
consanguinei, queste patologie sono frequenti, le recenti ondate migratorie
hanno aumentato il numero di casi clinici osservati in Italia.
Il
quadro clinico dei pazienti con sindromi emofiliche è caratterizzato dalla
spiccata tendenza alle emorragie anche spontanee a livello dei muscoli
(ematomi), articolazioni (emartri), cutanee (ecchimosi), mucose (gengivorragie,
epistassi, gastroenterorragie), di organi vitali (emorragie intracraniche).
L’intensità e la frequenza degli episodi sono proporzionali all’entità del
difetto.
Gli
ematomi muscolari sono tra i più gravi e invalidanti sintomi delle emofilie A e
B. le sedi più frequenti sono rappresentate dal polpaccio, coscia, gluteo e
avanbraccio (in quest’ultima sede possono comprimere i nervi mediano e cubitale
con gravi disturbi sensitivo-motori). L’ematoma dello psoas si manifesta con
dolore inguinale accompagnato da posizione antalgica della coscia in flessione
e intrarotazione. Pericolosi sono gli ematomi dei muscoli del pavimento della
bocca e del collo perché possono portare a compressioni del tratto
respiratorio.
Tra
tutte le manifestazioni emorragiche delle emofilie A e B, le più caratteristiche
sono gli emartri: l’articolazione più colpita è quella del ginocchio, seguita
da quelle del gomito, piede e anca. Gli emartri richiedono sempre un pronto
intervento, poiché se non trattati portano all’artropatia emofilica, con gravi
alterazioni dei capi ossei che possono condurre alla deformità.
A
carico della mucosa nasale possono presentarsi epistassi gravi. A carico della
cavità orale estrazioni dentarie ma anche piccole morsicature sono spesso causa
di sanguinamento grave e prolungato.
L’ematuria
è molto frequente nelle sindromi emofiliche gravi ed è accompagnata da dolore
colico, dovuto alla formazione di coaguli nella pelvi e al loro passaggio
nell’uretere.
Malattia
di von Willebrand
La
malattia di von Willebrand (VWD) è una patologia che colpisce entrambi i sessi
(a differenza dell’emofilia) caratterizzata soprattutto dal sanguinamento delle
mucose (sintomo prevalente).
Il
fattore di von Willebrand (VWF) è una proteina sintetizzata dalle cellule
endoteliali e dai megacariociti, con sue funzioni emostatiche principali. In
primo luogo è essenziale per l’adesione delle piastrine al sottoendotelio e per
le interazioni piastrina-piastrina, nonché per l’aggregazione piastrinica
soprattutto nei vasi di piccolo calibro e nei vasi arteriosi stenotici, nei
quali un rapido flusso sanguigno determina un’alta forza di scorrimento
(funzione solo parzialmente esplorata in vivo dal tempo di emorragia o bleeding
time, BT). L’adesione piastrinica viene promossa dall’interazione di una
regione del VWF con la GpIbα sulla membrana piastrinica. Inoltre, GpIbα e VWF
sono anche necessari per le interazioni piastrina-piastrina. L’aggregazione
piastrinica all’interno del coagulo in via di formazione è favorita da un
secondo recettore piastrinico, il complesso glicoproteico GpIIb/IIIa che, una
volta attivato, lega VWF e fibrinogeno, reclutando ulteriori piastrine nel
coagulo stesso. Oltre a queste importanti funzioni adesive, il VWF è lo
specifico trasportatore di fattore VIII nel plasma, lo protegge dalla
proteolisi, prolungandone l’emivita in circolo e posizionandolo nel luogo della
lesione vascolare.
Il
VWF nativo maturo circola nel plasma di soggetti normali alla concentrazione di
5-15 μg/ml; i soggetti di gruppo 0 mostrano livelli plasmatici di VWF più bassi
di quelli dei soggetti non-0. I livelli circolanti di VWF possono cambiare con
l’età e in presenza di condizioni generali fisiologiche (età, stress,
gravidanza) e patologiche (infezioni, neoplasie). I soggetti con livelli
inferiori alla norma sono predisposti agli episodi emorragici, mentre gli
individui con valori superiori al 150% hanno un maggiore rischio di trombosi.
La
classificazione della VWD identifica due categorie principali della malattia,
caratterizzati da deficit quantitativi (tipi 1 e 3) o qualitativi (tipo 2) di
VWF. Il tipo 2 presenta 4 varianti che riflettono i differenti meccanismi
fisiopatologici:
·
Tipo 1 à carenza quantitativa parziale di VWF (eriditarietà
soprattutto autosomica dominante a penetranza variabile)
·
Tipo 2 à difetto qualitativo di VWF (ereditarietà soprattutto
autosomica dominante)
o
Tipo 2A à variante con ridotta funzione piastrino-dipendente,
associata all’assenza dei multimeri ad alto peso molecolare
o
Tipo 2B à variante con assenza di multimeri ad alto peso
molecolare ma con aumentata affinità per la GpIb
o
Tipo 2M à variante con ridotta funzione piastrino-dipendente ma
non associata all’assenza dei multimeri ad alto peso molecolare
o
Tipo 2N à variante con diminuita affinità per il fattore VIII
·
Tipo 3 à carenza completa di VWF (ereditarietà autosomica
recessiva)
Come
già detto, la VWD è il disordine ereditario della coagulazione più frequente
(mediamente 1 caso su 10000 abitanti).
La
sintomatologia clinica è usualmente lieve nella maggior parte delle VWD di tipo
1, mentre si aggrava nei tipi 2 e 3. Le emorragie mucose (menorragie,
epistassi) sono tipiche manifestazioni della malattia in grado di condizionare
la qualità di vita del paziente. Per valutare sensibilità e specificità delle
emorragie, è stato proposto un punteggio specifico, il bleeding severity score
(BSS), che attribuisce un punteggio in base alle caratteristiche degli episodi
emorragici a cui il paziente è andato incontro. Nei soggetti normali il BSS è
sempre -1 mentre nei pazienti con VWD è sempre >3 nel maschio e >5 nella
femmina.
Diagnosi
di laboratorio: è necessario valutare la concentrazione plasmatica di VWF, di
fattore VIII e la capacità di VWF di legarsi al recettore piastrinico GpIb
(mediante il test di aggregazione indotta da ristocetina, RIPA, eseguito su
plasma ricco di piastrine con l’aggiunta di ristocetina, un antibiotico che
favorisce il legame di VWF alla GpIbα delle piastrine). Poiché il VWF gioca un
ruolo determinante nell’emostasi primaria, può essere anche utile eseguire il
tempo di emorragia. Tali test vengono eseguiti in maniera consecutiva in
pazienti con sospetta VWD. Il tempo di emorragia può essere prolungato o anche
normale (in pazienti affetti da VWD di tipo 1 lieve) e presenta inoltre
notevole variabilità dovuta alla manualità dell’operatore. Inoltre, il bleeding
time non è specifico per la malattia di von Willebrand poiché risulta
prolungato anche in situazioni cliniche che si presentano con conteggio normale
delle piastrine, come nel caso di assunzione di acido acetilsalicilico.
Si
può porre diagnosi di VWD di tipo 3 quando VWF non è dosabile. Una
proporzionale riduzione sia di VWF che della capacità di legarsi al recettore
GpIb, con rapporto RCo/Ag > 0,6 (RCo indica la capacità di legare GpIb, Ag
indica la concentrazione dell’antigene VWF) fa propendere per una VWD di tipo
1. Se invece RCo/Ag < 0,6 la diagnosi è di VWD di tipo 2.
Sono
anche possibili la diagnosi molecolare (ricerca la presenza di mutazioni a
livello del gene VWF) e la diagnosi prenatale.
Lo
scopo della terapia della VWD è di correggere i due difetti dell’emostasi, cioè
l’anormale adesione piastrinica per una bassa attività di VWF e l’anomala via
intrinseca della coagulazione dovuta ai bassi livelli di fattore VIII. Due sono
gli approcci terapeutici l riguardo:
·
Uso di
desmopressina che rilascia VWF endogeno dai comparti endoteliali
·
Infusione di VWF
esogeno con concentrati che contengono VWF e fattore VIII
Emofilia
A e B
L’emofilia
A e B sono difetti congeniti della coagulazione dovuti alla carenza di fattore
VIII (sintwtizzato dagli epatociti, circola nel plasma complessato con il VWF) e
IX (fattore vitamina K dipendente) rispettivamente. Entrambe le alterazioni
vengono ereditate in maniera eterosomica (mediante cromosoma X) e pertanto i
maschi sono affetti e le femmine sono portatrici.
Il
quadro clinico è caratterizzato dalla tendenza emorragica (che si manifesta
tardivamente, a differenza di quello che si verifica nei difetti dell’emostasi
primaria), con amatomi ed emartri spesso invalidanti. Le manifestazioni sono
tanto più gravi e frequenti quanto più bassi sono i livelli di fattore VIII e
IX circolante.
La
diagnosi è di laboratorio e viene effettuata in tutti i soggetti che presentano
un aPTT prolungato mediante il dosaggio specifico dei fattori VIII e IX. Il
livello circolante dei fattori è importante perché permette una stima immediata
della gravità dell’emofilia. Distinguiamo infatti forme gravi (livelli di
fattore <1%), moderate (1-5%) e lievi (6-30%). Una volta identificato il
paziente emofilico in una nuova famiglia, deve essere affrontato lo studio
genetico nelle donne per identificare lo stato di portatrice. Un metodo
semplice di screening utilizzato in passato è rappresentato dalla valutazione
nel plasma del rapporto fattore VIII/VWF: quando il rapporto è
significativamente ridotto (nei soggetti normali è sempre uguale o >1) c’è
un’elevata probabilità che la donna sia portatrice. Oggi esistono anche
numerosi polimorfismi che possono essere utilizzati per predire lo stato di
portatrice. Anche la diagnosi prenatale può essere eseguita dalla 8° alla 11°
settimana di gravidanza mediante prelievo dei villi coriali, se un’analisi
precedente ha dimostrato un genotipo informativo per il difetto. Se non è stata
possibile la biopsia dei villi, il prelievo di sangue ombelicale fetale,
eseguibile tra la 18° e la 21° settimana, è in grado di dare un’ulteriore
possibilità diagnostica prenatale. Nel caso di neonati maschi, nati da madri
portatrici potenziali od obbligatorie, o comunque in caso di sospetta emofilia,
è necessario effettuare un prelievo di sangue dal cordone ombelicale e
procedere al dosaggio del fattore VIII e IX immediatamente dopo il parto.
Gli
scopi del trattamento dell’emofilia sono quelli di arrestare o prevenire
l’emorragia nei pazienti e di rendere minimi i danni muscoloscheletrici
successivi agli ematomi e agli emartri. Il trattamento dipende dal grado di
carenza del fattore e dall’entità dell’episodio emorragico (il fattore VIII ha
emivita di 8-12 ore, il fattore IX di 18-24 ore). Attualmente sono a
disposizione numerosi tipi di concentrati distinti in due gruppi: quelli di
derivazione plasmatica e quelli ottenuti con le tecniche del DNA ricombinante.
Le
complicanze del trattamento sono rappresentate dalle infezioni virali (il
rischio di trasmissione di HCV, HBV ed HIV è stato azzerato con l’avvento delle
nuove tecniche di inattivazione virale, ma infezioni da HAV e Parvovirus B19
possono ancora essere trasmesse) trasmesse coi plasma derivati e dalla comparsa
di anticorpi circolanti che neutralizzano l’effetto dei concentrati
antiemofilici (si verifica più frequentemente nell’emofilia A).
Difetto
di fibrinogeno
Il
difetto di fibrinogeno può essere totale (afibrinogenemia) o parziale (ipofibrinogenemia)
oppure s possono presentare alterazioni qualitative del fibrinogeno
(disfibrinogenemia). Mentre l’ipofibrinogenemia è asintomatica, il soggetto
afibrinogenemico si presenta con un quadro emorragico importante. Oltre al
prolungamento del PT e aPTT i pazienti presentano anche un prolungato tempo di
emorragia. La terapia sostitutiva appropriata è rappresentata dai concentrati
di fibrinogeno trattati. Dala la lunga emivita del fibrinogeno (4-5 giorni), la
somministrazione va eseguita ogni 3-4 giorni.
Difetto
del fattore II (protrombina)
Il
fattore II agisce nella fase finale della cascata coagulativa convertendo il
fibrinogeno in monomeri di fibrina che verranno stabilizzati dal fattore XIII.
Per assolvere il suo compito, il fattore II deve essere attivato a IIa
(trombina) dal fattore Xa in presenza di fattore Va e ioni calcio.
È
una malattia rara di tipo autosomico recessivo che presenta uno spettro di
sintomi molto ampio (emartrosi, ematomi, epistassi, menorragie non severe).
Pazienti affetti da carenza di fattore II che abbiano un’attività plasmatica
della proteina di almeno il 50% del normale non soffrono di problemi emorragici
poiché l’emivita del fattore II è relativamente lunga (2-4 giorni). Per una
corretta diagnosi è necessari utilizzare test specifici (non basta la
misurazione dei livelli di fattore nel plasma) che utilizzano come attivatori
della protrombina diversi tipi di veleno di vipera. Dopo la diagnosi fenotipica
è necessario procedere alla diagnosi molecolare per caratterizzare la o le
mutazioni causa della malattia. In casi particolari è possibile anche eseguire
la diagnosi prenatale.
Si
distinguono un difetto di tipo 1 (ipoprotrombinemia) caratterizzato da bassi
livelli sia di antigene (ossia di fattore) che di attività coagulante, ed un
tipo 2 (disprotrombinemia) caratterizzato da livelli dell’antigene nella norma
con attività coagulante assente.
Difetto
di fattore VII
Il
fattore VII è una glicoproteina vitamina K dipendente sintetizzata dal fegato.
Svolge un ruolo fondamentale nella via estrinseca. Dopo un danno vascolare, il
fattore VII si lega al fattore tissutale (TF), legame che attiva il fattore VII
a fattore VIIa. Il complesso TF-fattore VIIa catalizza la conversione del
fattore IX e X a IXa e Xa rispettivamente. La malattia è di tipo autosomico
recessivo e si manifesta con difetti emorragici severi o moderati, oppure può
essere asintomatica (la sintomatologia non è sempre correlata ai livelli del
fattore). La diagnosi fenotipica prevede la misurazione dei livelli di fattore
presenti nel plasma; si dividono un difetto di tipo 1, in cui sia antigene che
attività sono ridotti; ed una forma di tipo 2, in cui l’antigene è normale ma
l’attività assente. Dopo la diagnosi fenotipica è necessario procedere alla
diagnosi molecolare per caratterizzare la o le mutazioni causa della malattia.
In casi particolari è possibile eseguire la diagnosi prenatale.
Difetto
di fattore X
Il
fattore X è sintetizzato nel fegato e ricopre un ruolo centrale nella cascata
della coagulazione poiché rappresenta il punto di convergenza delle vie di
formazione del trombo. Per dare inizio alla fase finale del processo
coagulatorio il fattore X deve essere attivato (Xa) e allo stesso tempo
controllato perché ne sia moderata l’attività. Su questo fattore convergono la
via estrinseca (il complesso TF-fattore VII attiva il fattore X) ed intrinseca
(il complesso fattore VIIIa-fattore IXa attiva il fattore X). Il fattore Xa
trasforma sia il fattore V che VIII (può anche attivare il fattore VII) nella
loro forma attiva ed inoltre, complessato col fattore Va, aumenta di migliaia
di volte la conversione della protrombina in trombina.
La
carenza di fattore X è una malattia autosomica recessiva con uno spettro di
sintomi molto ampio (epistassi, amartrosi, ematomi, sanguinamento del
gastroenterico, ematuria, sanguinamento del SNC). Tra le varie carenze
fattoriali tende ad essere la più grave. Poiché i sintomi sono precoci, i
pazienti affetti generalmente non mostrano sanguinamenti postoperatori poiché
vengono trattati in profilassi con terapie sostitutive.
La
caratterizzazione del fenotipo prevede la misurazione dei livelli di fattore
presente nel plasma e test funzionali specifici (come l’attivazione mediante
veleno di vipera Russel). Dopo la diagnosi fenotipica è necessario procedere
alla diagnosi molecolare per caratterizzare la o le mutazioni causa della
malattia. In casi particolari è possibile eseguire la diagnosi prenatale.
Si
distinguono un tipo 1, con bassi livelli sia di antigene che di attività; un
tipo 2, con antigene nella norma ma attività assente; ed un tipo 3, con
antigene ed attività ridotte.
Difetto
di fattore XI
Il
difetto di fattore XI (emofilia C) quando è <15% può accompagnarsi a
problemi emorragici importanti e può richiedere un trattamento (oggi è a
disposizione un concentrato specifico)
Difetto
di fattore XIII
Il
fattore XIII è l’ultimo enzima della cascata della coagulazione e ha la
funzione di stabilizzare i monomeri di fibrina. È costituito da due subunità A
che sono sintetizzate nei megacariociti, nei monociti e nei macrofagi, e che
svolgono il ruolo catalitico e da due subunità B sintetizzate negli epatociti
che svolgono la funzione di stabilizzare la subunità A. la carenza del fattore
XIII è una malattia autosomica recessiva in cui il deficit può essere dovuto ad
una carenza della subunità A (la maggior parte dei casi), di unità B o di
entrambe.
Le
manifestazioni cliniche sono varie e comprendono emorragia del cordone
ombelicale, ecchiosi, ematomi, emorragie della cavità buccale e delle gengive,
emartrosi ed emorragie cerebrali (la maggior causa di morte nei bambini affetti
dopo la nascita).
A
differenza degli altri difetti, in questo caso i test di primo filtro non sono
informativi in quanto risultano normali. Esistono però test altamente specifici
(test fotometrico, utilizzo di mAb contro le subunità ecc) in grado di
permettere la diagnosi. Dopo la diagnosi fenotipica è necessario procedere alla
diagnosi molecolare per caratterizzare la o le mutazioni causa della malattia.
In casi particolari è possibile eseguire la diagnosi prenatale.
Difetti acquisiti dell’emostasi
secondaria
Sindromi
emorragiche da difetti semplici
·
Difetti di
vitamina K à la vitamina K è
introdotta con la dieta (verze, prezzemolo ecc) ed è assorbita a livello intestinale;
è una vitamina liposolubile e richiede sali biliari e una flora batterica normale per il suo
assorbimento. Deficit di vitamina K (sono quasi sempre acquisiti) si possono
verificare in seguito a prolungato digiuno, specie se accompagnato da terapia
antibiotica contemporanea ad ostruzione biliare. Anche molti coagulanti orali,
come il warfarin, inibiscono l’azione della vitamina K (inibiscono l’attività
dell’enzima vitamina K epossido reduttasi; esiste anche un raro difetto su base
congenita dovuta all’anomalia dell’enzima vitamina K epossido reduttasi).
Poiché il difetto è a carico dei quattro fattori vitamina K dipendenti (II,
VII, IX e X), il quadro di laboratorio è rappresentato da un PT e aPTT
prolungati con fibrinogeno normale. La terapia del difetto è sostitutiva. In
caso di emorragia acuta e massiva, che si verifica nei soggetti sottoposti a
terapia anticoagulante, il trattamento più appropriato è rappresentato dai
concentrati del complesso protrombinico (solo in assenza di questi concentrati
si può ricorrere al plasma fresco congelato)
·
Disfibrinogenemie
à un fibrinogeno anormale è stato riscontrato in corso
di carcinoma epatocellulare, ma anche in altre forme di epatopatie croniche. Di
solito il difetto viene individuato mediante esami di laboratorio: un tempo di
trombina prolungato, un tempo di reptilasi allungato e una disparità tra le
apparenti concentrazioni di fibrinogeno plasmatico quando misurate come tempo
di trombina e confrontate con metodiche quantitative e/o immunologiche. La
sintomatologia emorragica può essere importante in taluni casi; nella maggior
parte dei pazienti però si giunge alla diagnosi unicamente in seguito agli
esami laboratoristici. Il trattamento della disfibrinogenemia non richiede
trattamento sostitutivo. Nel caso di una sindrome emorragica è corretta la
somministrazione di plasma fresco congelato
·
Inibitori
acquisiti della coagulazione o anticoagulanti circolanti à gli inibitori acquisiti o anticoagulanti circolanti
possono essere contro ben precise proteine della coagulazione oppure possono
esercitare la loro azione in maniera più diffusa contro i fosfolipidi, a
somiglianza con gli anticoagulanti che si sviluppano in corso di LES (per cui
prendono il nome di lupus like). Per quanto riguarda il primo gruppo, gli anticoagulanti
contro il fattore VIII sono quelli che si presentano con maggior frequenza nel
corso di neoplasie (mucosi fungoide, linfoma istiocitico, mieloma IgA). Queste
forme vengono inquadrate nell’ambito di forme di emofilia AD acquisita, con
quadri emorragici spesso drammatici che richiedono trattamento altamente
specialistico. Tra le forme di anticoagulanti circolanti va considerata anche
la sindrome di von Willebrand acquisita. Si tratta di una diatesi emorragica
caratterizzata da livelli ridotti o alterata funzione del VWF plasmatico. La
sindrome di von Willebrand acquisita è associata a una frequenza elevata in
pazienti affetti da sindromi linfoproliferative e mieloproliferative.
L’eziopatogenesi di questa malattia può essere attribuita alla presenza di
autoanticorpi contri il VWF; alla presenza di recettori anomali a livello di
cellule neoplastiche; alla presenza di flusso vorticoso nelle camere cardiache
e nei grossi vasi arteriosi che attivano il VWF, inducendo aggregazione delle
piastrine in circolo. In questo caso, l’approccio terapeutico si può basare
sulla somministrazione di desmopressina (derivato sintetico della vasopressina
in grado di indurre la liberazione di VWF), di concentrati di VWF/fattore VIII
o di inìmmunoglobuline ad alte dosi
Sindromi
emorragiche da difetti complessi
·
Epatopatie à il fegato è la sede di sintesi e di regolazione della
maggior parte dei fattori emostatici. Data l’elevata incidenza delle
epatopatie, è sicuramente il difetto acquisito più frequente. I meccanismi che
stanno alla base del difetto multiplo sono: diminuita sintesi dei fattori della
coagulazione (V, VII, IX, X, XI, protrombina e fibrinogeno); difetto di
vitamina K (da malassorbimento per colestasi intra ed extraepatica);
iperfibrinolisi (dovuto alla diminuita sintesi degli inibitori come le
antiplasmine); CID per eccesso di trombina circolante (dovuta alla ridotta
produzione epatica di antitrombina e proteina C); piastrinopenia (dovuta
all’ipersplenismo spesso associto). La diagnosi del difetto emostatico in corso
di epatopatia si basa essenzialmente sull’esecuzione dei comuni test di
screening. Il trattamento viene riservato ai pazienti che sanguinano oppure che
devono sottoporsi a procedure invasive diagnostiche e terapeutiche. I presidi
terapeutici utili sono il plasma fresco congelato, la vitamina K e/o la
desmopressina
·
Insufficienza
renale à l’aumentata tendenza emorragica osservata nei
pazienti uremici è dovuta alla ridotta adesione delle piastrine al
sottoendotelio secondaria all’anemia dei pazienti: infatti una ridotta massa
dei globuli rossi con valori di ematocrito <30% favorisce l’inserimento
delle piastrine all’interno del flusso ematico eritrocitario, impedendone lo
spostamento verso le pareti dei vasi. Dal punto di vista terapeutico, si somministra
desmopressina o, più recentemente, si ripristina l’ematocrito mediante
somministrazione di EPO
·
Paraproteinemie à si verificano in corso di malattie ematologiche come
ad esempio il plasmocitoma o la macroglobulinemia di Waldenstrom. La
plasmaferesi è in grado di correggere il difetto emostatico
·
Coagulazione
intravascolare disseminata (CID) à la CID è un processo patologico in cui si verifica un’attivazione
generalizzata del sistema emostatico. Viene innescata da svariate condizioni
(infezioni batteriche e virali, neoplasie, anomalie vascolari, reazioni di
ipersensibilità ecc) e l’attivazione della coagulazione porta a un’eccessiva
deposizione di fibrina nel microcircolo a cui segue la lisi ad opera della
plasmina. Il risultato di questo processo è dapprima una microtrombosi a cui fa
seguito di solito un consumo delle piastrine e dei fattori della coagulazione.
A seconda del tempo in cui avvengono questi fenomeni si può assistere a due
quadri clinici e di laboratorio: la forma acuta (scompensata) a impronta
prevalentemente emorragica, in cui l’elemento scatenante è talmente massivo da
portare in breve al consumo dei fattori dell’emostasi; la forma cronica
(compensata o ipercompensata) a impronta prevalentemente microtrombotica in cui
i livelli della coagulazione sono normali o addirittura elevati. Come già
detto, la CID è associata ad un numero estremamente elevato di condizioni,
tutte comunque accomunate dallo stesso meccanismo patogenetico che porta la
formazione di trombina e plasmina. A seconda che prevalga l’eccesso di trombina
o di plasmina il quadro cambia da trombotico a emorragico. Il quadro emorragico
è molto evidente poiché è massivo, con ecchimosi, porpora, petecchie,
sanguinamenti nelle sedi di intervento. Il quadro microtrombotico è più subdolo.
Esistono anche quadri con impronta trombotica particolari, quali la porpora
fulminante che si presenta in corso di sepsi da meningiococco, morbillo e della
febbre delle montagne rocciose. Per quanto riguarda la diagnosi, il test
patognomonico per una diagnosi di CID è il dosaggio del D-dimero (elevato in
tutti i casi). Le piastrine possono essere diminuite o normali e anche il
livello del fibrinogeno può essere diminuito, normale o aumentato. Il PT è
prolungato nella CID scompensata. Il tempo di trombina è spesso prolungato per
la presenza di fattori di degradazione di fibrinogeno/fibrina e
ipofibrinogenemia. poiché è anche sensibile alla presenza di eparina che può
essere somministrata nei soggetti con CID cronica, va eseguito anche il tempo
di reteplasi che non è sensibile all’eparina. Altri importanti quadri di
laboratorio sono l’anisopoichilocitosi dei globuli rossi che appaiono spesso
frammentati e la deposizione di fibrina nei capillari e nei vasi di piccolo
calibro. L’aspetto più importante nel trattamento della CID è rappresentato
dall’individuazione e rimozione della causa scatenante. Nelle forme acute
scompensate può essere somministrato plasma fresco congelato; in alcune
situazioni microtrombotiche può invece essere indicata l’eparina
Trombofilie congenite e acquisite
Vengono
definite trombofilie congenite o ereditarie quegli stati di ipercoagulabilità
dovuti alla carenza o all’alterata funzionalità di uno dei principali inibitori
fisiologici della coagulazione. A esse viene aggiunta la sindrome da anticorpi
antifosfolipidi (APA) che è di tipo acquisito: infatti la presenza di APA in
associazione a uno o più difetti trombofilici ereditari aumenta il rischio
trombotico in maniera significativa.
Difetti
di antitrombina III
L’antitrombina
III è una glicoproteina che funziona formando un complesso 1:1 con i fattori
della coagulazione attivati, e in particolare con la trombina. La formazione di
questo complesso è fortemente accelerata in presenza di eparina (mentre quelle
a basso peso molecolare o il fondaparinux inibiscono solo il fattore Xa). Sono
state identificate mutazioni specifiche che producono due tipi di difetti: tipo
1, difetto quantitativo; tipo 2, difetto qualitativo (l’antitrombina c’è ma è
disfunzionale).
La
prevalenza della carenza ereditaria di antitrombina III è stimata nell’ordine
di 1:2000-5000.
Le
manifestazioni cliniche sono quelle di un tromboembolismo prevalentemente
venoso (molto spesso l’episodio tromboembolico si manifesta quando si
presentano altri fattori di rischio): i vasi coinvolti sono quelli degli arti
inferiori, l’asse iliaco-femorale, la vena cava e la vena renale. Sono anche
riferite trombosi venose cerebrali, trombosi venose mesenteriche e la sindrome
di Budd-Chiari (quadro clinico caratterizzato da ittero, epatomegalia e splenomegalia, ascite e ipertensione portale, causati da una occlusione della vena epatica).
La
diagnosi di basa su specifici test di laboratorio: sono tecniche immunologiche
per la misurazione dell’antigene e metodi funzionali che usano substrati
cromogenici.
Il
trattamento degli episodi acuti di trombosi con difetto di antitrombina III
prevede l’impiego di eparina seguita dagli anticoagulanti orali.
Difetto
di proteina C
La
proteina C (PC) è una glicoproteina sintetizzata dal fegato che richiede la
vitamina K per agire. È attivata dalla trombina che di associa alla
trombomodulina sulla cellula endoteliale. Una volta attivata (APC), coadiuvata
dal suo cofattore proteina S, è in grado di inattivare i fattori Va e VIIIa. Il
difetto di PC (trasmesso con ereditarietà autosomica dominante) si può misurare
in maniera quantitativa (PC antigene) o mediante test funzionali: questi
misurano l’abilità della APC di clivare un substrato sintetico (test
amidolitico) oppure la capacità della APC di prolungare un tempo di
coagulazione mediante inattivazione del fattore Va e VIIIa (test coagulante).
Sulla base di questi test si distinguono un’anomalia di tipo 1, caratterizzata
da ridotti livelli di PC; ed un’anomalia di tipo 2, caratterizzata da livelli
antigenici normali ma da bassa attività ai test funzionali.
Il
quadro clinico dei soggetti eterozigoti può essere sintomatico oppure silente.
In caso di trombosi si evidenziano quadri di tipo venoso e arterioso (TVP, TEP,
ictus). Il difetto omozigote o doppoi eterozigote può presentare quadri
drammatici come la porpora fulminante.
Il
trattamento è anche in questo caso anticoagulante con eparina ed anticoagulanti
orali.
Difetto
di proteina S
La
proteina S (PS) è una glicoproteina vitamina K dipendente prodotta dagli
epatociti, cellule endoteliali e megacariociti.
Serve come cofattore per l’attività anticoagulante della proteina C
attivata. Esiste nel plasma in due forme: la forma libera (40%) e quella legata
(alla C4b binding protein).
Sono
a disposizione test immunologici che misurano la quantità antigenica della OOS
dissociando o rimuovendo la PS dalla forma complessata e che quindi permettono
di misurare la PS libera, la PS legata e la PS totale.
Anche
in questo caso, il difetto è di tipo autosomico dominante.
Il
quadro clinico è caratterizzato da episodi di tromboembolismo venoso e
arterioso.
Il
trattamento si basa sulla somministrazione di eparina e anticoagulanti orali.
Resistenza
ereditaria all’attività anticoagulante della proteina C attivata
Difetto
ereditario causato da una mutazione genica di uno dei due substrati su cui
l’APC agisce: il fattore Va (che quando mutato prende il nome di fattore V di
Leiden). I soggetti portatori di questa mutazione hanno un’incidenza di episodi
tromboembolici 5-7 volte superiori a quelli descritti nei carenti di PC.
Mutazione
protrombina 20210
Un
polimorfismo nel nucleotide 20210 del gene della protrombina è responsabile di
un livello circolante di protrombina superiore alla norma. Il difetto è di
solito di tipo eterozigote e conferisce un aumento del rischio di trombosi
venosa di circa 3 volte.
Disfibrinogenemie
Gruppo
eterogeneo di malattie che si possono presentare con o senza sintomi e il
quadro può essere emorragico o trombotico. Tra quelle a quadro trombotico si
ricordano mutazioni che determinano la produzione di fibrinogeni anormali che
generano fibrina resistente alla fibrinolisi. Il difetto è autosomico dominante.
Iperomocisteinemia
Una
deficienza congenita degli enzimi deputati al metabolismo dell’omocisteina
provoca l’iperomocisteinemia, una malattia ereditaria caratterizzata da
aterosclerosi prematura, tromboembolismo venoso e arterioso, ma anche ritardo
mentale, ectopia lentis ed anormalità scheletriche. Il meccanismo che sta alla
base della predisposizione alle malattie vascolari di questi pazienti non è
completamente chiaro, ma dati sperimentali suggeriscono che l’omocisteina
danneggia l’endotelio vascolare, accelera il consumo di piastrine e stimola la
produzione di cellule muscolari lisce a livello della parete vasale. La forma
congenita è comunque rara, mentre possono essere più frequenti le forme
acquisite da ridotta assunzione di B6 e/o B12 (provocano deficit del sistema
enzimatico del metabolismo dell’omocisteina).
La
diagnosi si basa sulla misurazione dei livelli plasmatici di omocisteina
mediante cromatografia a scambio ionico, spettrometria di massa o cromatografia
liquida ad alta performance. I pazienti con difetto eterozigote possono avere
valori basali a digiuno normali. In questo caso può essere indicato un carico
di metionina, precursore dell’omocisteina. Le tecniche di biologia molecolare
hanno inoltre permesso di identificare la presenza di mutazioni nel gene
codificante i due enzimi più importanti, CBS e MTHFR.
Sindrome
da anticorpi antifosfolipidi
Gli
anticorpi antifosfolipidi (APA) sono un gruppo di autoanticorpi diretti contro
gli antigeni che sono composti di fosfolipidi a carica negativa. Sotto questo
termine vengono accomunati l’anticoagulante lupico (LA), gli anticorpi
anticardiolipina (ACA) e gli anticorpi responsabili della falsa positività al
test VDRL (venereal disease research laboratory, test per la lue o sifilide).
L’origine degli APA è controversa. Sono ipotizzabili come agenti eziologici le
infezioni batteriche o virali, un gene immunoglobulinico anormale, malattie
autoimmuni oppure l’esposizione di nuovi antigeni che si originano da un danno
cellulare e dalla liberazione dei fosfolipidi. L’associazione degli APA ai
quadri clinici gravi caratterizzati da tromboembolismo arterioso e venoso,
trombocitopenia, aboorti abituali e ripetuti, encefalopatia ischemica acuta e
lesioni cutanee come la livedo reticularis, è tuttora oggetto di studio.
Da
un punto di vista clinico la sindrome da APA non produce sanguinamento,
nonostante difetti emostatici siano presenti nei pazienti quali trombocitopenia
immune, difetti funzionali piastrinici, deficit isolati di protrombina.
Esistono due categorie di pazienti affetti da APA: quelli sintomatici e quelli
con storia clinica apparentemente muta.
Per
quanto riguarda la diagnosi, il LA è riconoscibile dalla sua abilità a inibire
i test di coagulazione quali l’aPTT, il kaolin clotting time (KCT) o il tempo
di veleno di vipera Russel (RVVT). Il KCT è un test di screening sensibile per
il LA, è simile all’aPTT ma il fosfolipide non è aggiunto alla miscela di
reazione, così che l’effetto del LA è reso al massimo nel test. Il RVVT usa
invece un veleno di serpente per attivare il fattore X in presenza di
fosfolipidi di cervello bovino. Se i test di screening sono anormali,
esperimenti di miscela devono essere eseguiti per documentare la presenza di un
inibitore, seguiti da un test atto a dimostrare che l’inibitore può essere
neutralizzato da fosfolipidi in eccesso. Inoltre, la presenza di ACA può essere
quantizzata mediante tecniche ELISA.
Per
quanto riguarda la terapia, i pazienti con APA che non hanno storia di trombosi
non devono essere trattati. Una prolungata terapia anticoagulante (ad alte
dosi) deve invece essere instaurata nei soggetti con tromboembolismo venoso e
arterioso.
Tromboembolismo
venoso
È
ormai assodato che embolia polmonare e trombosi venosa profonda non sono entità
distinte, ma manifestazioni diverse e stadi di uno stesso processo, definito
appunto tromboembolismo venoso. Infatti la trombosi venosa comincia quasi
invariabilmente dalle estremità degli arti e si estende in maniera prossimale
coinvolgendo le vene profonde e, quando un trombo se ne distacca, compare
l’embolia polmonare. Di conseguenza la prevenzione dell’embolia polmonare è
ottenuta mediante la prevenzione e il trattamento della TVP degli arti e quindi
il trattamento anticoagulante non differisce per le due condizioni. Poiché,
come detto, l’embolia polmonare è raramente preceduta da segni e sintomi di
TVP, la profilassi primaria è di gran lunga il modo più efficace nel ridurre la
mortalità nei pazienti ospedalizzati.
La
profilassi è diretta sia a ridurre lo stato di ipercoagulabilità, sia a
prevenire la stasi venosa. Questi obiettivi possono essere raggiunti con
anticoagulanti (eparina a basso peso molecolare per via sottocutanea) e/o calze
graduate compresive.
Sebbene
la diagnosi clinica di TVP sia aspecifica, un’attenta documentazione dei
sintomi e dell’obiettività clinici è estremamente importante nella diagnostica
differenziale tra TVP ed altre cause con cui possa essere confusa. Tra le
condizioni più gravi si ha la trombosi ileofemorale massiva che produce la
virtuale completa ostruzione del distretto venoso: essa è definita phlegmasia
coerulea dolens e si manifesta con un quadro di edema generalizzato cianotico
dell’arto colpito, estremamente dolente per la compromissione secondaria del
distretto arterioso. Ostruzioni venose di grado inferiore si manifestano con
dolore nella gamba e nella coscia, edema della gamba e del piede omolaterali,
colorazione blu-rossastra della cute con aumento della temperatura cutanea
rispetto all’arto controlaterale. In alcuni casi sono presenti circoli venosi
collaterali superficiali. In situazioni più subdole, i segni clinici descritti
si manifestano solamente dopo che il paziente sia rimasto in piedi per qualche
tempo. Esiste inoltre la possibilità di TVP asintomatiche. Per quanto riguarda
la diagnosi, la flebografia rimane lo standard diagnostico. L’ecografia ed
eco-Doppler costituiscono l’ultima evoluzione dei metodi non invasivi. Il criterio
diagnostico per la TVP è la mancata compressibilità della vena trombizzata da
parte della sonda. Esercitando una modesta pressione con la sonda ecografica
infatti, il lume della vena collabisce completamente a patto che non sia
occupato da un trombo. L’eco-Doppler è in grado di eseguire contemporaneamente
l’esame ecografico e quello Doppler.
La
diagnosi di embolia polmonare è aspecifica come la diagnosi di TVP e necessita
anch’essa di conferma mediante test oggettivi. Per quanto riguarda la
sintomatologia, la maggior parte dei quadri di embolia polmonare sono silenti.
La dispnea è il sintomo più frequente. Il dolore toracico è comune e di solito
indica un coinvolgimento della pleura. L’emottisi è un segno meno frequente. Per
quanto concerne la diagnosi strumentale, l’RX del torace non è specifica per
embolia polmonare (può mostrare un reperto normale) ma va sempre eseguita
poiché serve ad escludere altre diagnosi (es pneumotorace). Anche l’ECG è
frequentemente normale. La scintigrafia polmonare a perfusione è utile perché
il reperto di normalità esclude l’embolia, mentre un ampio difetto di
perfusione non correlato al difetto di ventilazione è altamente suggestivo per
embolia polmonare. Esistono elevate percentuali di casi in cui però i quadri
scintigrafici non sono dirimenti. In questi casi per la certezza diagnostica
bisogna ricorrere all’angiografia polmonare. Negli ultimi anni, la diagnosi di
embolia polmonare viene direttamente eseguita con TC spirale e angiografia
polmonare.
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